Ora posso ufficialmente definirmi italo-americana!
© Sally Barkow
Eccomi qui, in blazer rosso e scarpe lucide, seduta in una piccola stanza circondata da altre 34 persone e dalle loro famiglie.
L'edificio non mi è nuovo. L'ufficio degli United States Citizenship and Immigration Services (USCIS) di Salt Lake City, Utah, USA, è il luogo in cui mi sono recata molte volte all'inizio della mia vita qui negli Stati Uniti. È qui che si presenta la domanda di residenza, la richiesta di permesso di lavoro, si fanno i test biometrici e si partecipa ai colloqui.
Ho sempre avuto la sensazione di essere privilegiata quando sono passata attraverso i protocolli di sicurezza quando sono entrata nell'edificio. Come persona bianca, di classe media, istruita e di lingua inglese, ho sempre avuto la sensazione che mi guardassero e mi trattassero in modo diverso rispetto ad altri immigrati provenienti dal Sud America o da altri luoghi del mondo. L'ufficio immigrazione, le leggi e gli uffici non dovrebbero guardare al colore della pelle, all'accento o all'abbigliamento che si indossa... ma io ho notato che lo facevano eccome.
Oggi, però, avverto che guardano tutti i 34 presenti nella stanza nello stesso modo. Ci stanno accogliendo tutti come futuri cittadini degli Stati Uniti.
Di buon mattino, mia moglie Sally e io ci siamo alzate presto e abbiamo fatto colazione insieme. Mi ero ripromessa di non farmi prendere dall'emozione, dicendo a me stessa che era solo un altro giorno, dedicato alla burocrazia...
Abbiamo lasciato nostra figlia di due anni e mezzo, Harriet, all'asilo nido e abbiamo guidato per circa 60 chilometri fino a Salt Lake City. In mano ho una cartella con tutta la mia documentazione sull'immigrazione, le carte verdi, i documenti ufficiali e le lettere dell'USCIS, perché la maggior parte dei documenti deve essere restituita all'ufficiale al momento del check-in per la cerimonia di naturalizzazione. Presto non ne avremo più bisogno!
È il primo (dei tanti) momenti belli della giornata. Consegno la mia carta verde e il mio permesso di lavoro sapendo che non mi serviranno più per la mia vita qui negli Stati Uniti.
Il secondo momento positivo è quando mi consegnano una cartellina con le informazioni per i nuovi cittadini e la famosa bandierina americana! Molti di noi in sala tengono orgogliosamente la bandiera in una mano in attesa del prossimo momento.
© Sally Barkow
La cerimonia inizia con una rapida introduzione da parte dell'ufficiale responsabile, che spiega l'agenda di quello che succederà nelle prossime due ore.
Lentamente le cose iniziano a diventare più personali, ci vengono mostrati dei video su questo nostro “nuovo” paese ed è qui che rompo la promessa fatta a me stessa all'inizio della giornata. Faccio fatica a restare calma mentre penso al privilegio che ho di essere accolta in un altro paese e di chiamare un altro paese casa mia. Il privilegio di poter sposare l'amore della mia vita, di avere gli stessi diritti di tutti gli altri e il privilegio di poter essere la mamma di Harriet. Troppo spesso diamo per scontate tutte queste cose.
Poi comunicano l'elenco di tutti i Paesi da cui proveniamo, chiedendoci di alzarci in piedi quando sentiamo chiamare il nostro. Mi sorprende quando sento “Italia” e due di noi si alzano in piedi nello stesso momento! Un paio di posti alla mia sinistra, un ragazzo si alza: ci guardiamo e siamo subito in sintonia, perché veniamo entrambi dallo stesso piccolo posto del mondo!
Nella sala sono riuniti più di 20 Paesi, dall'Europa all'Australasia, dall'Asia all'Africa. Sembra che tutto il mondo sia rappresentato e che tutti noi abbiamo la stessa visione e il medesimo sogno: diventare americani a tutti gli effetti.
A questo punto sto cominciando a singhiozzare.
Se lo vogliamo, siamo invitati a dire qualcosa e a condividere la nostra storia. Approfitto dell'opportunità e condivido la mia gratitudine per essere diventata cittadina di un paese che mi permette di essere chi sono, di amare chi amo e di essere libera. Molte delle storie che vengono condivise riguardano le opportunità, l'istruzione e i sacrifici che le famiglie hanno fatto per poter vivere il sogno americano. I bambini raccontano la storia della loro mamma che li ha portati qui per consentire loro di avere un'istruzione e la possibilità di lavorare. Un'altra persona racconta di come l'amore lo abbia portato negli Stati Uniti, di come abbia dovuto sopportare il dolore della separazione dalla moglie mentre aspettava l'arrivo del permesso di lavoro. È così commovente ascoltare tante storie sui percorsi che ogni persona ha intrapreso dalle proprie città d'origine e che alla fine ci hanno portato tutti qui, in questa piccola stanza di Salt Lake City.
Uno dei momenti più difficili è quando mi chiedono di pronunciare il giuramento di fedeltà e di rinunciare alla fedeltà al mio paese d'origine: è una sensazione strana dopo aver rappresentato l'Italia ai Giochi Olimpici per due volte e aver prestato il mio servizio all'Aeronautica Militare Italiana quasi 20 anni fa. Mi piace pensare che non sto rinunciando a tutto questo, ma che sto aggiungendo un luogo in più nel cuore e nell'anima.
Poi arriva il terzo momento positivo della giornata. Ho in mano il modulo di naturalizzazione e ho ufficialmente la doppia cittadinanza! Sono appena diventata un'italo-americana!
Molte persone decidono di diventare cittadini di un altro paese per motivi diversi. Il mio motivo principale è partecipare alla vita del paese in cui vivo. Voglio poter votare, mettermi in contatto con i miei governanti, un giorno potermi candidare. La democrazia è forte quanto la nostra volontà di parteciparvi e io voglio avere il diritto e la responsabilità di partecipare. Voglio appartenere al paese in cui sto crescendo la mia famiglia, un paese che mi dà, e continua a darmi, tante opportunità. Un luogo in cui i nostri voti contano ancora e in cui le decisioni più alte (e spesso più difficili) sono lasciate ai cittadini.
E ora sono anch’io una cittadina degli Stati Uniti d'America, e mi rende così orgogliosa poterlo dire.